Si è conclusa da poco la mostra Come afferrare il vento, che l’artista pistoiese Federico Gori ha allestito nei locali di Palazzo Fabroni. Una mostra che potremmo definire site specific, perchè appositamente pensata per questo luogo, e quindi con esso strettamente connessa.
Conoscere l’arte di Federico Gori e vedere le sue opere è un po’ come prendere parte a un percorso catartico, di conoscenza, che invita il visitatore ad entrare in sintonia con la natura, a capirne il suo più intimo funzionamento. Quella natura che da sempre sta al centro della poetica dell’artista, che per mezzo del suo intercedere artistico si pone come obiettivo primario quello di studiarne e metterne in risalto le sue dinamiche, strettamente connesse al concetto del tempo che scorre inesorabile.
Underground, una delle prime opere in mostra
La mostra prende avvio con Tentativi di certezza, Underground e continua con la serie Perenne: incisioni e ossidazioni naturali su rame, materiale molto utilizzato dall’artista e che meglio di ogni altro, forse, rende espliciti i risultati dell’azione del tempo sulle cose. In virtù della sua sensibile mutevolezza infatti il rame si ossida, muta la sua composizione e il suo aspetto, qualificandosi come un elemento fortemente condizionabile, per un’arte viva in continuo divenire. E’ anche questo ultimo aspetto peraltro che caratterizza in modo preponderante le opere di Federico Gori: il gesto artistico e antropico è limitato, non è totale, e ribalta il punto di vista, conferendo alla natura – e non all’artista – l’ultima parola, la licenza di agire senza venire manipolata in maniera invasiva. Questo come diretta conseguenza di quanto Federico Gori sostiene con la sua poetica, sviluppata com’è intorno all’impossibilità per l’uomo di controllare il tempo e di dominare la materia, sfuggente spesso ad ogni logica umana.
Uno dei pannelli della serie Perenne
Il percorso prosegue con l’opera più scenografica presente, quella che poi dà il titolo alla mostra; Come afferrare il vento rappresenta un momento cristallizzato in cui tutto è rimasto sospeso. Foglie di rame volteggiano con movimenti impercettibili a varie altezze e – messe lì a suscitare le varie impressioni degli astanti che con l’opera interagiscono al loro passaggio, in una dialettica continua tra uomo e arte che è insita a ogni opera di Gori – sembrano simulare una vorticosa folata di vento pronta ad investire chi vi si trovi davanti. Anche qui viene di nuovo data forma a quel ricorrente sentimento del tempo (qui rappresentato dal vento, in una metafora molto calzante) scandito in attimi, il cui tentativo di afferrarlo – come peraltro il tentativo di afferrare il vento – risulta essere sempre vano, e si instaura un’analogia che ben spiega il titolo della mostra e quanto esso sia pregnante, nonché quali siano i principi che ne stanno alla base.
Come afferrare il vento, l’opera-simbolo della mostra
Nella seconda parte della mostra si cambia registro: la tecnica di esecuzione delle opere qui esposte è visivamente diversa, pur non inficiando della filosofia di base dell’artista. La serie Corteccia, per esempio, è formata da grandi tele che riportano una trama non identificabile a colpo d’occhio; in realtà si tratta di grandi frottage che l’artista ha creato “abbracciando” con la tela stessa grandi alberi secolari e sulla quale – attraverso lo sfregamento di cenere e carbone o di erba e radici – ha riportato la trama della loro corteccia. Si tratta di opere in maggior misura legate alla terra quindi, che implicano un approccio dell’artista più diretto alla natura e che più che mai pongono l’accento sull’interazione uomo/natura alla quale abbiamo già accennato. Nel caso di questa serie, per Federico Gori si è trattato di un lavoro di documentazione fisica certo, ma anche concettuale, che ha riportato sulle tele l’aspetto più umano di questi alberi segnati anche essi dal tempo, trasformandole come in dei sudari intrisi di umanità.
Due delle tele che compongono la serie Corteccia
Per chiudere la mostra, infine, l’artista ha scelto un’opera che più di ogni altra si presta a interpretazioni di tipo filosofico-concettuali: con 13.12 Federico Gori riproduce in modo straordinariamente mimetico (servendosi della terracotta come mezzo espressivo) delle zolle di terra che sembrano state appena vangate. Si tratta quindi di artefatti: qui, ad una più attenta osservazione e prescindendo dall’iniziale senso di stupore, non c’è niente di naturale, ma comunque permane la volontà di nobilitare la forza generatrice della natura, in questa installazione espressa in modo diverso rispetto per esempio a quanto fatto con le opere in rame; le zolle infatti sono conservate in delle teche di vetro, come a sottolineare la loro unicità e preziosità. Aspetti questi ultimi che in 13.12 vengono attribuiti anche al lavoro dell’uomo e, volendo, dell’artista, impegnato qui – come altrove – non a rappresentare mimeticamente la realtà (come si potrebbe pensare, errando), ma a rendere manifesto il dato naturale, sempre interessato dal continuo divenire in un procedere ciclico che presuppone il concetto di un eterno ritorno delle cose.
Un particolare dell’installazione 13.12
Questo ultimo principio, molto interessante dal punto di vista filosofico, rappresenta il vero fil-rouge dell’intera mostra, già di per sé ricchissima di spunti poetici, e in quest’ultima installazione è applicato a un elemento fisso non sottoposto all’azione del tempo. Variante che però non risulta essere svilita, bensì sembra arricchirsi di un’ulteriore interpretazione, che trova le sue radici nel pensiero aristotelico: le cose, secondo Aristotele, sono composte di materia e di forma secondo una dualità imprescindibile. La materia rappresenta ciò che è in potenza, ovvero ciò che essa potrebbe diventare, la capacità che ha di trasformarsi; la forma di contro identifica quello che è in atto delle cose, in parole povere la parte di esse che è tangibile, visibile agli occhi. In 13.12 questo concetto sembra trovare chiara espressione, attraverso queste zolle che risultano essere tali soltanto in potenza, ma che nell’atto si presentano come artefatti.
Una mostra quindi ricca di occasioni di riflessione quella di Federico Gori, che sorprende per questo ma anche per la bellezza e l’unicità del suo modo di fare arte, originale e intelligente.
Clara Begliomini